Descrivere in modo sintetico e con proprietà di linguaggio il lavoro di Antonio Cavadini noto col nome di  TONYLIGHT non è cosa semplice dati i molteplici aspetti del suo approfondire il design come light designer (per la ditta spHaus ha disegnato “SUN” ora fuori produzione)

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e soprattutto per l’interesse nei confronti della musica elettronica a 8 bit.

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Per questo motivo riporto un testo completo e ben scritto da Domenico Quaranta (critico e curatore di arte contemporanea e co-fondatore del “Link Center for the Arts of the Informations Age” insieme a Fabio Paris e Lucio Chiappa) che sintetizza, in modo esaustivo, lavori, performance ed interessi di Tonylight in giro per il mondo. Il testo-presentazione fa riferimento ad una mostra dal titolo “Flooding Noise” del 2012 tenutasi alla Fabio Paris Art Gallery di Brescia (http://www.fabioparisartgallery.com).

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 DOMENICO QUARANTA scrive:

“All’origine di tutto il lavoro di Tonylight ci sono una storia d’amore e due gesti di rivolta. L’amore è quello che esplode, inatteso, verso la fine degli anni Novanta in un Antonio Cavadini (1973) neodiplomato in una scuola di design, per l’elettronica e per il digitale. Sono gli anni del Web e delle prime comunità online, luoghi di condivisione e di scambio paritario che offrono ad Antonio l’occasione per conoscere, e per controllare, tecnologie che gli appaiono allora, come oggi a molti di noi, magiche. È questo amore a spingere Antonio, all’inizio di quella che vorrebbe essere una carriera di “light designer”, a coniare lo pseudonimo Tonylight, che finirà poi per portarsi dietro in un percorso del tutto diverso, di artista e musicista. Eppure, Tonylight non è soltanto il retaggio di un tentativo troppo precoce di tradurre in un nome la propria identità: informale, ingenuo e ottimista, questo pseudonimo sembra scoraggiare ogni tentazione di “overstatement”, e introduce quel senso del gioco, quel gusto per l’ingegneria fai da te, quel piacere per la sperimentazione libera e condivisa che caratterizzano tutto il percorso di Tonylight. Con queste premesse, è facile intuire che i gesti di rivolta cui ho fatto cenno non saranno rumorosi e sbracati, ma silenziosi e caparbi. Il primo arriva quasi subito, quando Tony si rende conto che il mondo del design gli può permettere al massimo di tradurre il suo amore in qualche lampada, senza concedere molto alla sperimentazione libera. La quale, invece, sembra trovare spazio nel mondo dell’arte, che Tony frequenta accompagnandosi a Francesco Vezzoli in un ruolo che Tony definisce di “assistente” e Francesco, scherzando, di “autista”. La seconda “rivolta” si radica nella consapevolezza che motiva da sempre la scelta di affidarsi a procedure ed estetiche “do it yourself” (DIY): la consapevolezza, cioè, che le aziende produttrici e i professionisti cercano di imporre agli utenti il loro ritmo, la loro visione, i loro sogni di controllo e di potere, limitandone la libertà e favorendo l’omologazione. Amatori, bricoleur e dilettanti si sono sempre opposti, più o meno consapevolmente, alle logiche della produzione seriale: mi progetto il mio tavolo, che sarà diverso da tutti gli altri tavoli. Ciò che cambia, con l’elettronica e il digitale, è il fatto che a essere progettati non sono più oggetti, ma interfacce, software, reti sociali, oggetti intelligenti: macchine per il pensiero che contengono una propria ideologia e una propria data di scadenza, e che possono condizionare in maniera permanente il nostro modo di produrre contenuti e di relazionarci con loro, e tra di noi.

Questi due aspetti (il rifiuto del design e la scelta del DIY) sono già presenti in Anulios (2003), uno dei primi lavori di Tonylight. Anulios (nome evocativo che fa riferimento alla luna) è un oggetto volutamente disfunzionale, inutile ma al contempo interattivo (e iperattivo): al passaggio dello spettatore, l’oggetto si attiva, suonando una musica pre-registrata che fa lampeggiare diverse luci. Gli oggetti che compongono l’installazione sono progettati e assemblati dall’artista, e i cavi di alimentazione sono lasciati a vista, con quel gusto del “dirty design” che è tipico delle pratiche DIY.

In HDD (2005), invece, è un vecchio hard disk a trasformarsi in un molesto strumento musicale, che emette suoni acuti e casuali attraverso il magnete della testina. In questo caso, l’intervento sull’oggetto è visivamente ancora più semplice: Tony apre l’hard disk lasciandone a vista i contenuti, e vi innesta tre semplici pulsanti: “start”, “stop” e “volume”. Concettualmente, un oggetto destinato alla spazzatura viene recuperato (resistendo all’obsolescenza programmata che ci invita a cestinare il vecchio hard disk per comprarne uno più costoso, veloce e capiente) e riconvertito (resistendo alla funzione attribuita dai suoi produttori a quell’oggetto). Il fatto che la funzione che Tonylight attribuisce al suo vecchio HD sia quella di produrre musica non deve stupire. Proprio dalla musica, infatti, è partito quello sforzo di riappropriazione della tecnologia obsoleta che vediamo in azione qui. Tony vi è entrato in contatto alcuni anni prima, attraverso la rete e soprattutto attraverso comunità online come Micromusic.net, di cui contribuirà a fondare il nodo milanese. Micromusic.net è una comunità di musicisti che fanno musica utilizzando vecchi computer e, più spesso, vecchie console di videogiochi convertite in sintetizzatori a 8 bit. Lo strumento più utilizzato è il Gameboy della Nintendo, per cui alcuni hacker hanno realizzato e messo in circolazione delle cartucce modificate che lo convertono, appunto, in uno strumento maneggevole ed estremamente versatile. Tony si procura una di queste cartucce (il Nanoloop del tedesco Oliver Wittchow), e inizia a fare performance nei contesti più vari, dai centri sociali ai club alle fiere d’arte. Nel 2005 si costruisce persino uno strumento di amplificazione portatile ed ecologico, per suonare la sua musica nelle strade e nelle piazze, convertendo l’energia solare in suoni acidi e minimali: è la Solar Audio Bag (2005), un trolley trasformato in amplificatore autonomo e alimentato da un pannello solare, simile agli strumenti modificati o autoprodotti usati da tanti musicisti di strada. La Solar Audio Bag è la prima manifestazione dell’interesse di Tonylight per la progettazione dei propri strumenti, anch’esso condiviso con la scena della musica 8 bit e del DIY elettronico in genere. Progettati per lo più per se stessi, questi piccoli “tool” possono a volte essere distribuiti attraverso la rete a un mercato di nicchia, ma che può occasionalmente raggiungere dimensioni notevoli. Così, mentre il 6bitnoisegenerator (2008), assemblato e decorato a mano, è destinato per lo più a un uso privato, il più complesso Leploop (2011), progettato in collaborazione con Giovanni Membretti (ingegnere e membro del collettivo Otolab), è un sintetizzatore analogico dal look vintage assemblato in una prima tiratura di 50 esemplari e subito venduto in tutto il mondo attraverso il passaparola in rete.

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Space Led B/1

2010, Led, box in plexiglass, parti elettroniche e materiali vari
26,5x30x6,5 cm

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PhotoNoise

2011, Installazione sonoro/luminosa
Contemporary Lighting Contest, Como 14 ottobre 2011

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Leploop

2011

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http://www.youtube.com/watch?v=8-5g8Y9p8DU

Rainbow Noise

2012, 392 led, plexiglass, audio 36 x 72 x 3 cm

Del resto, il lavoro sugli “strumenti” e sulle “opere” si intreccia continuamente, tanto in termini di obiettivi che di procedure, al punto da rendere legittimo il dubbio che non esista per Tony, fra le due ricerche, una vera distinzione. Nel 2006, l’artista comincia a lavorare al primo prototipo di una serie di piccoli schermi al LED, che assembla manualmente elemento dopo elemento. Nati negli anni Sessanta, i LED (acronimo inglese di “light emitting diode”) sono dispositivi per l’emissione di luce divenuti popolari attraverso gli elettrodomestici e le tecnologie di consumo. Gli sviluppi di questa tecnologia nel corso degli anni Novanta, sia in termini di gestione del colore (con l’avvento dei LED RGB) che in termini di quantità di luce emessa, ne consentono oggi un impiego generalizzato in tutti i campi. Nel suo primo Space LED (2006) Tonylight si serve di 192 diodi a luce blu per creare uno schermo a bassissima risoluzione (16×12 pixel, dove ogni diodo corrisponde a un pixel) su cui riprodurre immagini e piccole animazioni derivate dai vecchi videogiochi, come Space Invaders. Lo schermo è controllato da un vecchio pc portatile, smontato e riassemblato in una scatola. Rispetto al prototipo, gli schermi successivi (2008 – 2010) mantengono inalterati gli elementi di base, ma si raffinano progressivamente nel design: il computer diventa un processore più piccolo alimentato dal caricatore di un cellulare, nascosto all’interno della stessa cornice di plexiglas (bianco o nero) in cui sono incastonati dei nuovi LED più grandi ed opachi, a luce bianca, che garantiscono una migliore riconoscibilità dell’immagine. Parallelamente, Tonylight sviluppa questa ricerca sulla luce in altri lavori. In General Electric – servizio elettronico centrale (2006), una collana di LED a luce bianca corre su una serie di tre tralicci da cantiere, collegata a una centralina altrettanto provvisoria. Il variare della luce è determinato dalla presenza di alcuni sensori che regolano il flusso di corrente sulla base del numero di persone presenti nello spazio. In questo modo, Tonylight dà vita a una metafora visiva che da un lato rende visibili i flussi di energia che attraversano uno spazio – quello urbano – ormai totalmente elettrificato; dall’altro allude al ciclo dell’elettricità, che dalla natura proviene e alla natura ritorna, facendola interagire con il nostro corpo e la nostra energia. Ma questo traliccio provvisorio allude anche al fragile equilibrio del nostro presente, che una guerra, un attentato, un disastro naturale o anche solo un banale incidente possono spezzare da un momento all’altro. Little Ladder (2008) si inserisce invece in una serie di interventi (di sola luce o di luce – suono, come il precedente My PVC (2004) tesi a rivitalizzare spazi solitamente ai margini della nostra percezione. La scaletta va installata in orizzontale in un angolo dello spazio espositivo, appena sotto il soffitto (come le icone russe e il Quadrato nero di Malevic): lungo i suoi pioli corrono dei LED RGB, che emettono una luce colorata in continua mutazione che riformula completamente il ruolo di quell’angolo nell’economia visiva dello spazio espositivo.

Le ricerche di Tonylight sul suono e sulla luce trovano una convergenza, e approdano al loro risultato (ad ora) più completo e risolto, nelle opere esposte in questa mostra. Photo Noise (2011) è un’installazione basata su Lumanoise, un sintetizzatore sviluppato da Tonylight come strumento per performance audiovisive. Lumanoise converte la luce in suono servendosi di fotoresistenze e oscillatori: colpendolo con diversi tipi di luce e modulando la loro intensità e frequenza, è possibile generare una esperienza sinestetica il cui luce e suono scorrono all’unisono, ridisegnando lo spazio attorno a noi. Nell’installazione, il fastidioso lampeggiare di due luci stroboscopiche genera un noise permanente, alterato dalle ombre proiettate dagli spettatori che si muovono al suo interno. Più che un’installazione interattiva, Photo Noise è quindi un corpo vivente, un’entità immateriale che risponde all’ambiente e ai suoi abitanti.

Rainbow Noise (2012) apre invece un nuovo ciclo di schermi LED che si servono di diodi RGB. Diversamente dalla serie Space LED, in cui i diodi erano controllati da un processore che se ne serviva per riprodurre delle immagini, in Rainbow Noise ogni diode è un piccolo micro-computer autonomo, che dispiega la propria gamma di colori in maniera casuale. Riuniti a formare uno schermo (di 192 o 384 pixel) sembrano dispiegare un comportamento curiosamente gregario, disturbandosi a vicenda sia a livello visivo che a livello sonoro. L’artista accentua questa impressione, amplificando il loro brusio e trasformando la griglia di diodi in uno sciame di insetti dal comportamento vivace e imprevedibile.

Evocato da entrambi i lavori, il “noise” diventa il tema di fondo di tutto il lavoro recente di Tonylight. Rumore e disturbo, principio e fine di ogni segno comunicativo, magma primordiale da cui il senso trae origine, e in cui collassa, assurgono – come già la precarietà di General Electric – a metafora di una società in cui si sono persi i punti di riferimento, e in cui il senso si perde in un assordante rumore di fondo. Ancora una volta, Tonylight sembra suggerire una possibile via d’uscita nel fai da te, nella ricerca libera e nella riappropriazione amatoriale e appassionata dei media che ci hanno condotto sull’orlo dell’abisso.”

 

Tonylight Flooding Noise

Testi: Domenico Quaranta,Chicca Lorini

Immagini: Web